Luca Roncoroni on Sentire Ascoltare
«La musica di un mondo possibile, dove le macchine sono ormai patrimonio arcaico e fanno semplicemente parte del folklore umano», dove è possibile e anzi perfettamente normale che «un laptop ed un sitar si incontrino in riva a un fiume, e inizino una jam su antiche formule». Leggendo le note stampa che accompagnano il disco potrebbe essere assai facile storcere il naso, prospettando un magari suggestivo ma superficiale bignami di facili esotismi conditi da ricamini elettronici per suonare attuale e very cool. Male, anzi molto bene, perchè fortunatamente non è affatto questo il caso.
Le atmosfere intessute dall’«artista multimediale» Bob Meanza e dal sitarista Filipe Dias De sono sicuramente colte alla perfezione da quanto citato poco fa, ma lungi dai due è il proporre la paventata, modaiola minestrina di arpeggini folk e beat molto dancey, molto indie e molto stantii. Qui c’è una reale e assai densa urgenza di ricerca, di fare e di provare attraverso il suonare, in un disco solido e intelligente che si divide tra arcaismo e innovazione, ma senza fratture o dissonanze, dove tradizione e sperimentazione convivono e si compenetrano con una grande naturalezza. In questo senso OU riesce perfettamente nel suo intento, mostrando senza ombre una peculiare e definita identità sonora e plasmando un immaginario acustico preciso e personale. C’è un’elettronica entusiasmante, figlia tanto di reminiscenze limpidamente techno, quanto di fluttuazioni e modulazioni di stampo più ambientale e “cosmicheggiante”, e c’è uno spiccato afflato di primitivismo che si traduce in sitar svolazzanti ma concreti e inserti percussivi tribaleggianti che inducono spesso a momenti di trance dal respiro quasi rituale.
Uniforme e ben calibrato, l’album scorre senza mai sfociare in picchi emozionali gratuiti, e si tiene sapientemente a debita distanza da facili concessioni troppo moody; è invece lampante nei suoi solchi una sincera ricerca espressiva che si accompagna ad un’innegabile padronanza della materia e dei propri mezzi. Ascolto per nulla facile, badate bene, ma che confermando un facile stereotipo sa ben ripagare in proporzione all’attenzione concessagli.
Matteo Castello on Storia della musica
Laptop e sitar. Un’equazione improbabile la cui soluzione sta tutta nelle mani di Bob Meanza (compositore elettronico) e Filipe Dias De (suonatore di sitar), che insieme giocano con i linguaggi arditi di una ambient-techno che non teme le ibridazioni e gli accostamenti più inusuali.
Le frastagliate polveri glitch increspano anche le superfici più lievi (“Spree 1”, “Spree 2”), per uno scorrere pizzicato da corde preparate di sitar e rappreso in densi layer sintetici che distorcono spazi e tempi. C’è una visione a tutto tondo -lo si capisce fin dall’inizio- in “OU”, uno sguardo poetico (la cui metrica sta nelle giunture tra kosmische e techno) capace di narrazioni soniche che muovono brani apparentemente scomposti entro un ordine definito, armonico.
Così un pezzo come “Nominale Steigung”, seppur rigidamente incastonano in austeri rigidismi techno, trova sbocchi negli interventi dubstep alla Kode9 + the Spaceape (beats stretchati, vocals cavernosi e gorgoglianti), che intervengono ad aggiungere spessore e dinamicità al tutto. Meanza e De sono capaci di far traspirare anche i brani più asettici e sperimentali: le pulsazioni di “OSC” sono introdotte da un profumato fraseggio di sitar che rimane a striare il brano in interazioni sempre più fitte, il collage di “Puppets” (intricata giungla di tape reverse, ritmiche industrial e minacciosi frammenti vocali) trova nelle sue squadrature nette una vocazione passionale e “hardcore”, le manipolazioni rugginose di corde di “Età del Ferro” si avviluppano in spire che conservano una loro originaria fragranza (del tutto sprigionata, invece, nella distesa ambient di “Floyk”).
Ciò che spicca, riassumendo, è proprio la dialettica tra estemporaneità (calore) e calcolo (freddezza), una dialettica che è materia stessa dei brani in scaletta, imbevuti di questa doppia natura. Frutto di un metodo preciso: le take arrivano da una live session al Robot Festival di Berlino (anno 2013), ma ciò che ascoltiamo è stato rimaneggiato a dovere (e a distanza) da Meanza. Ed ecco spiegata la formula magica: catturare il guizzo dell’attimo e incastonarlo su disco. Esperimento riuscito.
John Book on This is Book’s Music
OU (Aut) is one of those albums where you’re unsure what you’re listening to and why but something hooks you, pulls you in and keeps you within its realm for its duration. At least that is how I interpret what Meanza&De do on OU, a mixture of electronic peculiarity where everything sounds chopped to the smallest detail and adjusted to create something that isn’t weird. In fact, I would call the music here a distant cousin of the familiar but it’s so off-center that you want to touch it if you could. Or with a track like “OSC”, things begin very beautifully and delicate and then it finds itself in a new world and things make you feel dizzy, if not queasy. The electronics are then mixed in with instrumentation of what sounds like found instruments, or instruments that may very well be custom made, but it may be a figment of my imagine as the two people involved (Bob Meanza and Filipe Dias De) are credited as playing two things: electronics and sitar. I hear what Meanza is creating and what I like is that it is meant to sound foreign, if not distant but what he does makes you want to come closer, to touch it and know what it feels or smells like. De’s guitar work may be subtle at first but concentrate on the sounds. Sometimes it sounds fairly normal, other times you wonder if the traditional pandits would cringe at the thought of the sounds being stretched to nth limits.
It’s very experimental in every sense of the world but it’s not annoying nor will it make you cringe. OU is a place you didn’t think you’d ever want to be in but once you explore the elements, you hope more people will come inside and populate the place.
Michele Saran on Ondarock
È un esperimento al contempo inusuale e tipico, quello dell’accoppiata tra Michele “Bob Meanza” Pedrazzi (già sperimentatore electro con diversi lavori a suo nome) e il sitarista portoghese Filipe Dias De, entrambi trasferiti a Berlino, nel loro primo “OU”. Vi è il folk digitale dei Books, ma la prospettiva è colta e atmosferica e allo stesso tempo cede, ma non facilmente, al battito dance. Vi sono sempre avvicendamenti di strati sonori e pathos. L’aurorale, sorrentina e fantasmagorica “Spree 1” è solo l’antipasto. “Floyk” è un bordone trascendentale che concerta riverberi astratti e bolle galattiche: quello che si dice musica new age di spessore. “Spree 2” importa l’ebollizione febbricitante di Terry Riley, ritraducendola per la cameretta, ma anche immergendola in percussioni casuali. Più ordinata, ma più efficace, “Nominale Steigung”, tutta poliritmi tribali, mistero equatoriale, fino a una danza marziana dominata da voci deformi e accordi psichedelici. Il sitar assume fisionomia dapprima in “OSC”, lanciato lentamente ma letteralmente in orbita fino a farne un acquarello elettroacustico (con una certa dose di caos), e diventa protagonista in “Puppets”, un vero incubo esoterico, svirgolando vortici attorno a un battito ancestrale ed elettronica velenosa. E in “Età del ferro” si esibisce in uno degli assoli più deliranti che si ricordi, sconfinante in un puro sbatacchiamento (con l’elettronica che, se possibile, lo aumenta) che si riallaccia agli “assoli” per cacofonie dei Red Crayola. Vi è anche la ciliegina sulla torta, “Weg”, un canto “modale” del sitar sovrainciso che accresce poco a poco a saltarello spaziale e indi a canto virginale. Risultato armonico da far inorgoglire l’Eno di fine 70, florido di intuizioni, ricco quello stilistico, mai calligrafico. Anni di prove e lavorazioni (Michele Saran 7/10)
Ettore Garzia on Percorsi Sonori
Una delle profezie di Stockhausen che sembrano sempre più aderenti alla realtà musicale in sviluppo fu quella di pronosticare una severa correzione tra musica di ricerca o comunque proponente al raggiungimento di una verità spirituale e musica di intrattenimento, incapace di avere qualsiasi caratteristica del genere; una nicchia contro una marea dilagante. Tale distinzione che negli ultimi anni ha avuto modo di porsi in maniera significativa ed allarmante (aiutata persino dalle maestranze teoricamente più vicine alle nicchie) è la stessa che regge la distinzione tra musica con povertà di contenuti ed arte musicale. In quest’ultimo àmbito l’idea costruttiva che sottintende alla musica, sta diventando il catalizzatore principale per una buona distinzione delle proposte: sia che si parli di musica elettroacustica che di libera improvvisazione su strumenti acustici, sia che si parli di ricerca complessa orchestrale che di ricerca di nuovi suoni determinati da un computer, è sempre necessario valutare l’idea di fondo e la sua estetica (quest’ultimo altro fattore caduto nettamente in crisi).
Michele Pedrazzi, in arte Bob Meanza, è un musicista impegnato nell’elettronica nato a Verona nel 1978 ed espatriato a Berlino, dove ha potuto trovare un ambiente più consono alle proprie prospettive: nel 2013 Meanza si è fatto notare per un interessante progetto d’installazione intitolato Cicadas, notato anche al Robot Festival di Bologna nel 2013, in cui ha escogitato un sistema artificiale di insetti musicali da far suonare sotto forma di aggeggi meccanici liberamente posizionati in un ambiente delimitato o nell’ampia zona naturalistica dei parchi, che emettono suoni simili a quelle delle cicale dietro comando elettronico. Lo scopo del progetto realizzava con molta sagacia il tentativo di riposizionare aspetti sonori tipici di un ambiente, trapiantandoli in un altro privo di queste caratteristiche. Ad ogni modo Meanza, anche nelle esperienze compiute di contro all’improvvisazione libera o jazzistica (ha anche studiato jazz), sembra voler evidenziare la qualità dell’amalgama ottenibile nella musica attraverso il rimpasto dei suoni: di questo avviso è anche il progetto Meanza & De in “OU”, in cui il glitch di Meanza si unisce al lavoro di Filipe Dias De, un suonatore di sitar completamente atipico se rapportato al carattere filosofico espresso dallo strumento in India; con lo strumento liberamente processabile si riescono ad ottenere più qualità artistiche: una sua levigazione lo rende idoneo all’amalgama con i suoni di Meanza, mentre l’accrescimento del suo timbro metallico lo fa diventare archelogico; l’intero lavoro di rimodulazione dei suoni scovati al laptop da Meanza tende verso la trasposizione immaginaria dei mondi sonori: una splendida e tangibile prova viene offerta in L’età del ferro, cinque minuti di comunicazione con la materia viva del passato remoto. L’elettronica fornita contiene comunque quel rispetto per le diversità culturali (ancora evidenziate nonostante la decostruzione dei suoni) mantenendo anche qualità armoniche inaspettate, fattore che la moderna attività di ricerca suoni sui computers tende a mascherare (vedi in tal senso il lavoro di Holly Herndon).
Manfredi Lamartina on RockIt
Si torna piacevolmente indietro nel tempo, ai primi vagiti degli anni Duemila, quando glitch e folk si ibridavano in un suono sconnesso, sottile ed evocativo. Bob Meanza e Filipe Dias De con “Ou” costruiscono – o smontano, a seconda di come la si voglia vedere – un lavoro intelligente e ambizioso quanto basta per non limitarsi a seguire la strada dei soliti Fennesz e Books. Questo è un disco di elettronica a misura d’uomo e di folk per display retroilluminati. “Spree 2” aggiunge un tocco di solidità ritmica che, viste le premesse, non era certo scontato aspettarsi. Di contro, “Nominale Steigung” riduce all’osso la struttura in una sorta di processione pagana, atonale e intrigante. Sintesi perfetta di un disco di pochi elementi e di buone prospettive.
Michael Eisenberg on Avant Music News
This is what happens when you cross electro-acoustic with psychedelia—Hint: It’s all good!
This is what I’ve noticed after listening to this record a few times:
1-The sum of Sitar player Filipe Dias De + electronic manipulator Bob Meanza = a mind blasting trip through the baby-like silk smooth-bathed in newborn innocence /virginal / milk-fed brain of the unsuspecting listener.
2-At some point during this trip, the above soul (mentioned in #1) consciously realizes that he is quite powerless/helpless/hamstrung/fucked resulting in the above mentioned virginal/milk-fed brain to morph in upon itself, change its chemical and physical constitution in order to come out (safely) on the other side (albeit as a blackened smoldering, viscous mound of semi-cognizance).
3-The above mentioned semi-cognizant mind, in order to achieve adequate regeneration must immediately consume the essential salts (go downstairs, eat cold pizza) and, in a post-haste fashion curl up in bed for a hopefully dreamless (but probably not due to the lingering effects of #2) nights sleep.
That’s what I’ve noticed after listening to this record a few times.
(It’s really good, it’s really unusual and, as a post thought…there is a point when a highly manipulated / processed voice started talking in an unrecognized tongue on this recording…I believe this voice was mocking me for even thinking I can survive this and come out intact. It was right.)
Recommended for the intrepid psychonaut.
Baze Djunkiii on Nitestylez
Put on the circuit on June 15th, 2015 via Aut Records is “OU”, the first collaborational album effort of media artist Bob Meanza and sitar player Filipe Dias De under their conjunctial moniker Meanza & De in which they serve an eight tracks an 45 minutes journey into Ambient realms with an experimental and slightly disharmonic twist. Electronic improvisations somewhere in between Drone-influenced, cinematic spheres and an electrical buzz meet sparse, hollow sounding percussion elements, hyperdigital clicks and the out of tune sound of Dias De’s prepared sitar, creating a cold, partly esoteric yet not necessarily easily accessible sonic environment that stems from a Berlin-recorded, four-hour non-stop performance – all re-edited and recomposed by Bob Meanza to built “OU” from this source material. The result seems to be best described somewhat in between the sound intellectualisms of the late – ca. 2010 – MillePlateaux / MillePlateauxMedia / Ritornell / Cluster conglomerate, hippie’esque Indietronics, ethnic Folklore influences as well as the diverse output of labels like City Centre Offices and the likes of. Defo more of a specialists release that won’t appeal to a wide audience for sure but an album that is catering quite a fascinating view on Illbient / Plunderphonics Dub with the tune “Puppets” which is, according to our listening session, an outstanding highlight amidst a bunch of more balky and abstract tunes which make up the majority of the album.
Track by track on The Ransom Note
Ou est le pamplemousse? That’s pretty much the extent of the combined knowledge of French between all of us here at R$N Towers (speak for yourself Ciaran) so we’re assuming that the latest album from Meanza&De is simply called ‘Where’. If we’re wrong, it’s not the end of the world and frankly we’re too busy worrying about where our grapefruit has gone. Meanza&De, however, knows a bit more about European culture and the album takes us on an aural tour of some of Europe’s most cultural cities. We sat back and let them describe OU one track at a time.
SPREE 1 & SPREE 2
Of course the main source of inspiration for these two tracks is Berlin’s river, the Spree. The way the music is organized, the way it sounds, pays homage to this calm urban river and its ever-changing flowing motion.
The tracks are separated like a mini-suite, suggesting perhaps a day/night alternation: a two-day crossing of the city through the river. I personally like to associate different moments in the tracks to different places on the river. Maybe when the bass drum comes in, we’re near to the east-side club district, and the distant voices we hear after that are morning chants from Treptower Park…
Actually most of these associations came during the editing time, as I was recomposing the material we recorded with Filipe. He had probably other “visions” while we were playing, but the good time we spent talking and relaxing by the river made certainly a common ground to these sounds.
These are also the tracks that I feel are most represented by our cover art (by Marco Ugolini), with the blue and brow colors and the abstract natural forms.
NOMINALE STEIGUNG
This track is probably the only one we actually played in our live sets before the recording. Although every other feature has frequently changed, the main sample has always been the same: a pitched-down German voice speaking about “costs” and “nominal increases”. Filipe and I find this effect actually a bit cheesy (it’s the simplest gimmick you can think of), but we also liked the menacing combinations of the tribal elements and these lazy bureaucratic advices. This track turns out to be well connected to present times, as the main sample was aptly chosen. It’s a German politician speaking about the economic situation in Greece! This is the red track: listening to it now can convey ominous feelings, but also liberating energy.
OSC
This track rotates around a gorgeous improvisation Filipe did on his prepared sitar. You hear the impro at the beginning of the track, then I bring in a very nasty oscillator and I “ruin” everything, stopping this wonderful playing (you can hear Filipe putting down his sitar!). But since at that point I had already collected a lot of real-time samples from the impro, I started playing them back at that provoked a new dialogue between me and him (between the sampled sitar and real sitar), which turned to be pretty intense!
PUPPETS
This track is the most edited on the album. In the other numbers we wanted to preserve the natural atmosphere of our jams, but in this one things went different. The starting point is a warped sampled sitar loop, which you hear at the very beginning of the song. I liked this loop, so I started building a more linear song structure, layering other instruments on it: snare, bass drum and eventually voices.
The chaotic nature of the original sitar loop didn’t make the editing easy. It was like preparing a boiling soup, in which you try to put new flavors, but everything is hot and sweaty, you feel not so lucid about what you’re throwing in! Side-chain compression and dynamic EQ helped a bit, and our friend Sender did some good fixes in the mastering. Still, I think the track remains intoxicatingly warm, and the color we chose for the video is a delirious purple.
And who are the Puppets? I recorded this voice sample in Siracusa (Sicily, Italy) during a local Puppet Theater performance!
ETÀ DEL FERRO
This piece accounts for the kind of improvisation Filipe and I often ended doing in our sets. Probably not an easy listen, but it has its dialogic sense and narrative. The title in Italian means “Iron Age”, and recalls once again the primitive feelings we wanted to convey, even though using “experimental sounds” (what does experimental mean, after all?) and lots of machines. The Iron Age metaphor also comes from the metallic sound of the sitar, which connects really good with live-sampling. It was a discovery we made in our first meetings: Filipe’s resonating tone merges seamlessly with the crushed digital texture of my granular synths.
FLOYK
Once again, the track rotates around a processed sitar loop and a granular texture on the background. The D-minor pedal allows Filipe to play some actual real “notes” on the sitar (maybe the only moment in the album!), and the whole feeling is nicely psychedelic. The other main character of the track is the small Pocket-Piano synthesizer: it’s the fast arpeggio that comes in and out. This synth was often with me for the live shows, and its basic tone (a harsh digital wave) became also a trademark of most songs. I would link the track’s mood to a photo I did in Italy, in a calm, almost static moment of a sunny afternoon, half asleep under thick shadows.
WEG
We saved for the album’s closing a very nice and naïve sitar riff, which is then sampled and layered with electronics. It’s the most sweet and “folk” tune we made, in which we connect explicitly with all the ethnographic samples we used throughout the album. Once again, this laptop-sitar jam can be set by the river or by the sea, under a tree on planet “OU”. And when the fisherman calls finally come in, everything we like is there, in its own right place.
Giacomo Salis on Beautiful Freaks
Meanza appartiene a quella folta schiera di indagatori del suono che, stregati da esso, arrivano a spingersi continuamente oltre. È attento a delineare un percorso personale che comprende progetto installativi di sound art, quali ad esempio Cicadas, piccoli insetti robotici, costruiti con componenti elettronici e microcontroller e dall’altro la militanza in band quali Toxydoll, e le collaborazioni con il chitarrista Andrea Faccioli. In questo nuovo capitolo , targato Aut Records, lo troviamo in compagnia di Filipe Dias De, membro fondatore di Altes Finanzamt, musicista e scrittore, che affronta uno studio del sitar applicato a contesti di musica improvvisata in ambito sperimentale. I due ci offrono un viaggio affascinante e ambiguo, frutto di una indagine intelligente e meditata in un ambiguità fatta di passato e futuro, di citazionismo e negazione di esso. All’insegna di un equilibrio fatto di improvvisazione radicale, elettroacustica, glitch, space ambient e dove ipotetici mantra vengono opportunamente de-sacralizzati in quanto piegati e trasfigurati nel caos delle concitazioni postmoderne. Le sovrapposizioni di “Spree 2”, dopo un inizio immateriale lasciano spazio a temi affascinanti e liquidi, sostenuti da un impianto ritmico del tutto inaspettato. Il tribalismo digitale di “Nominale Steigung” caratterizzato da pattern ritmici fatti di rintocchi , frasi pitchate e slide. Il viaggio freak di “OSC”, sitar in evidenza sostenuto da droni e frequenze da space movie e ancora i lamenti urbani di “Puppets”, e la materialità ostentata di “Età del Ferro” che sconfina in territori cageiani. Una ricerca in bilico tra atmosfere lisergiche proiettate nel futuro ignoto, folk frantumato, anti accademismo, e la consapevolezza propria di chi vuole portare la propria indagine sonora a un livello superiore.
Rigobert Dittman on Bad Alchemy Magazin nr. 86
MEANZA & DE OU (Aut Records, AUT018): Hinter Bob Meanza steckt eigentlich Michele Pedrazzi, ein aus Verona stammender promovierter Semiotiker in Berlin, der sich auf kleine Klangautomaten spezialisiert hat. Bekannt machten ihn seine “Cicadas v1.0”, einer Installation, mit der er einen almost ironical accent on the brave new world of cooperation between man and nature zu setzen versuchte. Hier ist seine Klangquelle eine von Filipe Dias De gespielte Sitar, die an allerhand Saitenklänge denken lässt, aber anfangs nicht an indische. Durch Recomposing und Mixing werden auch hier kleine Intonarumori suggertiert, automatische Harfer, die eine Pipa imitieren, kleine Klopfer und Ticker, die sich marschierend in Gang setzen und über die eine Kinderstimme etwas hinweg ruft. Zu körnig ploppenden Pixeln klingeln kleine Triller, klopfen Loops, wellen sich Drones, während der kleine Spielmannszug weiter stapft. Als ‘Nominale Steigung’ die Bewegung verlangsamt, werden die klopfenden und tickernden Beats einen Gang höher geschaltet. Dazu raunt nun ein Ent mit borkiger Kontrabassstimme. ‘OSC’ twangt dann doch noch sitartypisch, gefolgt von pulsierendem Wummern, changiert jedoch Richtung Banjo oder Zither, mit prickelnd hohen Tönen. ‘Puppets’ tut sich, trotz eines leicht martialischen Beats, etwas schwer, mit zähen Bewegungen und abgerissenen Rufen. Pluckernde Schläge begegnen auf ihrem zögernden Gang surrenden Lauten und erneut der Sitar. ‘Floyk’ taucht in einen dröhnenden Kesselraum, mit dunklem Echo, zwitschernden Klangwellen und wiederum der Sitar. Die zuletzt dann in indischer Manier zu tremolieren und immerzu ein Muster zu wiedeholen beginnt und dabei sogar mit so etwas wie Altmännergesang einher geht. Bis eine unsichtbare Hand die Bewegung stört und abstellt. Das ist etwas anderes als die heimelige Suggestion von Sommer, Kindheit und Zuhause durch Grillen oder das, was Buddha Machines oder künstliche Kaminfeuer leisten. Aber was es ist, kann ich nicht sagen. Ich weiß ja nicht einmal so recht, was es leisten soll.
Intervista a Bob Meanza su Psycanprog
Giovanna Scandale on Battiti
A radio podcast featuring a track from “OU”.
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